La «impact economy» è una visione con radici lontane. Addirittura, made in Italy.
Un paradigma per affrontare la transizione energetica e le sfide del futuro.
L’economia di impatto, il nuovo “paradigma” e le sue caratteristiche, pensate per ribaltare l’approccio egoistico con la società e l’ambiente, in modo da essere più “generativi”. C’è un precedente, tuttavia, teorizzato in Italia alla fine del XVII secolo: l’economia civile.
Che cosa è l’impact economy? Che cosa si propone? Intanto, è un paradigma, ovvero una «visione», uno sguardo lungo che può orientare il mondo delle imprese – e tutti noi – a progettare il futuro avendo a cuore le nuove generazioni.
Quando oggi sentiamo dire che bisogna “cambiare paradigma” dell’economia per affrontare la transizione energetica e avere attenzione alla “sostenibilità” significa proprio questo: cambiare il modo di guardare le cose, pensando soprattutto alle nuove generazioni e agli anni che dovranno vivere.
L’impact economy è legata a doppia corda al social impact investing – di cui abbiamo già parlato su Beewise Magazine – servono risorse per aiutare questa prospettiva e anche un piccolo risparmiatore, ovviamente, può dare il suo contributo importante con una scelta orientata in questa direzione.
Le tre caratteristiche
L’impact economy si basa su tre premesse importanti. Deve anzitutto essere intenzionale: cioè ci deve essere la precisa volontà di creare impatto sociale da parte dell’impresa? Significa che questa determinazione deve già essere dichiarata nel business plan o nel piano industriale di una società e non alla fine dell’anno, magari appiccicata a un bilancio sociale redatto in fretta e furia. Qualche esempio? Voler agire sull’ambiente (la E di ESG, environment) costruendo un capannone che non inquina e in grado di autoprodurre energia; creare una struttura utile anche alla comunità locale dove c’è lo stabilimento o il quartier generale, come un asilo aziendale aperto (la S di ESG, social); scegliere di assumere una percentuale elevata di donne tra i dipendenti, facendo crescere chi merita ai livelli apicali e al contempo favorendo la conciliazione tra famiglia e lavoro (la G di ESG, governance).
In secondo luogo, l’impact economy deve essere misurabile. Ovvero è opportuno un monitoraggio di quanto si sta facendo, per valutare i vantaggi economici dell’impatto (in termini di risparmio, per esempio, oppure di maggior gettito per il Fisco, nel caso di iniziative finalizzate alla emersione del lavoro irregolare). E infine deve creare innovazione sociale in un ambito che ne ha necessità (l’asilo aziendale, per stare al caso di prima, in una realtà dove non esistono servizi di questo tipo).
La “generatività” e le origini
Questa visione si rifà a un concetto – oggi sovente utilizzato – di «economia generativa», che si contrappone a quello di «economia estrattiva». Come dire: un sistema che, al posto di spremere come un limone un territorio (dal punto di vista ambientale e sociale) lo fa crescere pensando al futuro.
C’è un precedente tutto italiano di questa “visione”. E lo si deve ad Antonio Genovesi, salernitano di Castiglione, dov’era nato il primo novembre 1713. Filosofo, carriera ecclesiastica, iniziò a insegnare “Economia civile” alla Università di Napoli Federico II dopo il 1750. Genovesi credeva in un mercato animato da persone in grado di equilibrare l’interesse per sé e la solidarietà sociale. Un presupposto antropologico molto diverso dal liberismo spinto: non homo homini lupus (come sosteneva Hobbes), bensì homo homini natura amicus. Insomma, rapporti, relazioni, reciprocità. L’intuizione, potremmo dire meglio, di vedere il mercato come “mutua assistenza”; non competizione spietata, ecco, ma coopetition.
Genovesi e i suoi avevano ben chiaro un obiettivo diverso per la società e per l’economia: non il bene totale, somma aritmetica della sola crescita, ma il bene comune, cioè uno sviluppo più integrale, composto sì di crescita, ma anche di asset come le relazioni e la dimensione spirituale, culturale e religiosa. Ebbene, l’economia civile sta riprendendo credito e terreno nei giorni nostri per la profondità di prospettiva che sa offrire. Fornisce motivazioni e scenario di sostanza all’economia generativa necessaria al cambiamento in chiave di sostenibilità.
L’impact economy si nutre di queste radici storiche. A seguire potete vedere e ascoltare Giovanna Melandri, presidente di Social Impact Agenda per l’Italia, che in un TEDx Talk alla Università Sapienza di Roma spiega con passione che cos’è per lei «La rivoluzione dell’impact economy».
Qualche riferimento in più
Infine, due realtà interessanti da tenere sotto la lente per capire ancora più concretamente i progetti di chi cerca seriamente di interpretare la «impact economy» in Italia e non solo.
Economy of Francesco. È il sito dei giovani economisti e imprenditori che a livello mondiale si stanno impegnando per la sfida lanciata da Papa Bergoglio: «Una nuova economia, ispirata a Francesco d’Assisi, oggi può e deve essere un’economia amica della terra, un’economia di pace. Si tratta di trasformare un’economia che uccide in un’economia della vita, in tutte le sue dimensioni».
A seguire un interessante ragionamento che la EOF Academy ha proposto su “tecnologie e diseguaglianze” in una interessante conversazione con Daron Acemoglu dell’MIT di Boston. L’impact economy è anche impegnata per superare le “inequality” che esistono e con cui siamo costretti a misurarci ogni giorno.
Torino Social Impact. Il capoluogo piemontese è diventato un punto di riferimento per la impact economy in Italia, creando un “ecosistema” per l’imprenditorialità e gli investimenti a impatto sociale di cui fanno parte, al momento, oltre 280 attori pubblici e privati, profit e non profit.